Il concetto dell’arma a retrocarica è antico, in pratica, quanto lo sono le armi da fuoco. Già in epoca tardo-medioevale erano infatti diffusi cannoni e falconetti “a mascolo”, nei quali la carica di polvere e i proiettili erano contenuti in una sorta di “bicchiere” in ferro che poteva essere rimosso dalla culatta dell’arma e prontamente (più o meno…) sostituito con un altro già carico. Ancora oggi destano meraviglia le due pistole-scudo “gemelle” realizzate per Enrico ottavo Tudor, dotate anch’esse di blocchi di culatta amovibili e sostituibili. Perché, allora, per impiego militare e civile si andò avanti con le armi ad avancarica fino in pratica alla metà del XIX secolo? La risposta è molto semplice: perché i vari sistemi di caricamento a retrocarica realizzati nel corso dei secoli erano viziati da un difetto sostanziale, cioè l’impossibilità di sigillare in modo efficace la giunzione tra la culatta della canna e i vari manicotti amovibili, con inevitabili sfiati di gas allo sparo, destinati ad aumentare nel tempo con l’erosione del metallo causata, appunto, dalle infiltrazioni di gas ad alta temperatura.
I tempi dovevano maturare
Il primo elemento indispensabile per superare il problema della realizzazione di un’arma a retrocarica veramente funzionale e affidabile è legato al metodo di produzione delle armi, fino in pratica ai primi anni del XIX secolo: come per qualsiasi altro manufatto umano dell’epoca, anche le armi infatti venivano realizzate con criteri artigianali, completamente a mano, con tolleranze di fabbricazione che, viste con gli occhi di oggi, sono semplicemente impensabili. Quindi, il primo ingrediente fondamentale per ottenere un’arma a retrocarica moderna, fu la rivoluzione industriale con il corrispondente processo di serializzazione della produzione.
Restava, poi, da trovare il metodo giusto per sigillare la camera di scoppio, l’intuizione, il colpo di genio. Come spesso accade, quando il sistema tecnologico di un’epoca è pronto, sono in molti ad arrivare, spesso autonomamente, allo stesso risultato negli stessi anni. Il primato assoluto dell’invenzione del bossolo metallico è, tuttavia, riconosciuto a Jean Samuel Pauly (1766-1821), armaiolo di origini svizzere, ex ufficiale dell’esercito elvetico, che in collaborazione con il francese Francois Prelàt mise a punto nel 1808 il primo progetto della cartuccia “self contained” con bossolo parzialmente o totalmente metallico (foto sopra) e, anche, il primo progetto di cartuccia a percussione centrale della storia. La corrispondente arma idonea a sparare questa cartuccia fu brevettata nel 1812. In sostanza, la cartuccia di Pauly aveva un bossolo completamente in rame, bronzo od ottone oppure con fondello metallico e corpo in cartone, a fondello sporgente, destinato a racchiudere e contenere la carica di polvere, il proiettile (sferico, in piombo) e la miscela innescante, costituita da una pastiglia di fulminato di mercurio e clorato di potassio accolta in una cavità al centro del fondello. Furono realizzati sia un modello di pistola, con canna basculante, sia armi lunghe (a una e due canne giustapposte, foto sotto), con blocco di culatta incernierato. L’accensione era effettuata da un percussore lanciato, che poteva essere armato da una leva esterna che ricordava il classico cane delle armi ad avancarica.
Nonostante le qualità futuristiche del progetto, le armi e le cartucce di Pauly, pur salutate con entusiasmo nei vari saloni internazionali dell’epoca, non ebbero il successo che sarebbe stato lecito attendersi: i motivi principali sono da ricercare sia nell’altissimo costo del sistema, in rapporto alle “normali” armi ad avancarica del tempo, sia comunque la non perfetta tenuta della cartuccia, perché la pastiglia di miscela innescante non era contenuta in un vero e proprio innesco metallico e, di conseguenza, con l’accensione determinava una fuga di gas dal foro di vampa che comunicava con la camera principale della polvere.
Lefaucheux e le cartucce a spillo
Il passo successivo nell’invenzione del bossolo metallico si fa risalire all’armaiolo francese Casimir Lefaucheux, che nel 1836 realizzò la cartuccia con percussione a spillo: il bossolo era, ancora una volta, realizzato in cartone con un fondello metallico, lateralmente al quale spuntava un piolo in metallo che, spinto dal cane dell’arma, andava a schiacciare una miscela innescante all’interno del bossolo.
Fu, tuttavia, nel 1846 che il sistema iniziò ad affermarsi, con il perfezionamento (e relativi brevetti) apportati alla cartuccia di Lefaucheux da parte del francese Benjamin Houillier. Nel periodo compreso tra il 1858 e il 1880 circa, l’accensione a spillo fu uno dei sistemi a retrocarica maggiormente di successo, in particolare per la realizzazione di revolver per impiego militare e civile che ebbero una diffusione esponenziale in Europa, ma anche nella realizzazione delle prime doppiette da caccia a retrocarica con cartuccia “self contained” a bossolo. La diffusione delle cartucce a spillo fu, tuttavia, rapidamente oscurata nel momento in cui (a partire dai primi anni Settanta del XIX secolo circa) cominciarono a diffondersi le moderne cartucce con bossolo metallico a percussione centrale, molto più sicure nel trasporto e nell’uso.
La cartuccia di Flobert
Un altro contributo fondamentale allo sviluppo della cartuccia a retrocarica a bossolo metallico è quello apportato da un altro francese, Louis-Nicolas Flobert, il quale nel 1845 è accreditato di aver inventato, in sostanza, la munizione a percussione anulare con il 6 mm che porta il suo nome (foto sotto). Flobert conseguì il risultato integrando un piccolo proiettile in piombo alla bocca di una capsula a percussione, senza alcun impiego di polvere da sparo. La cartuccia conobbe un successo pressoché immediato per il cosiddetto “tiro da sala” e ha avuto una notevole fortuna, visto che risulta essere in produzione ancor oggi.