Fa discutere il commento di un esperto di sicurezza, secondo il quale la legislazione italiana massacrerebbe chiunque cercasse di reagire a un attentato come accaduto di recente a Londra
L’Agi ha riportato ieri in un articolo il commento di Carlo Biffani, esperto di sicurezza e terrorismo, su quanto accaduto nei giorni scorsi a Londra, dove due cittadini sono intervenuti per immobilizzare un terrorista islamico che, purtroppo, era già riuscito a uccidere alcune persone a coltellate, fino all’arrivo delle forze dell’ordine che gli hanno sparato, uccidendolo, in quanto si riteneva che portasse addosso una cintura esplosiva, poi rivelatasi fasulla.
“Malgrado io sia totalmente convinto della necessità di fare in modo che coloro i quali si trovano a stretto contatto con l’assalitore applichino principi di autodifesa e ragionino, se ne hanno il modo, anche in termini di contrasto della minaccia, ribadisco, laddove possibile, resto dell’idea che in circostanze come quelle di Londra il nostro sistema giudiziario, avrebbe contemplato l’ipotesi di incriminare per una serie di reati chi ha solo cercato di difendersi”, è l’amara considerazione di Biffani, che rincara: “Tanto i cittadini che avessero tentato con l’uso della forza di fermare l’assalitore e lo avessero bloccato in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine, quanto gli stessi agenti si sarebbero trovati indagati per ipotesi di reato gravissime. Mi chiedo anche, conseguentemente a quanto accaduto a Londra, quale avrebbe potuto essere il comportamento dei nostri poliziotti di fronte alla necessità di fare fuoco contro una persona disarmata e ferma a terra, senza pensare prima di tirare il grilletto alle azioni giudiziarie che sarebbero inevitabilmente seguite. In pochi secondi gli agenti inglesi hanno dovuto decidere di sparare a una persona a terra, soltanto perché sospettavano che potesse quindi farsi saltare in aria, agendo in maniera letale unicamente, varrà la pena ribadirlo, sulla base di un sospetto. Le nostre forze di polizia, e in special modo gli uomini delle squadre antiterrorismo hanno tutte le capacità tecnico-operative per intervenire in maniera adeguata e per porre fine ad una simile minaccia. Temo però che un “vulnus” potrebbe essere rappresentato dalla consapevolezza che, già nelle ore immediatamente successive alla eliminazione del pericolo, seguirebbero ineluttabilmente – come previsto dal nostro ordinamento – una serie di azioni che vedrebbero i protagonisti quantomeno iscritti nel registro degli indagati, sospesi dal servizio e dallo stipendio, ed in balia di tribunali e di spese processuali che dovrebbero affrontare da soli, negli anni a seguire”.
“Sono sicuro del fatto che noi tutti ben si comprenda”, prosegue Biffani, “come questo tipo di “vulnerabilità tecnico giuridica” sia assolutamente e totalmente inconciliabile con la drammaticità della situazione che viviamo e con la violenza delle azioni che costoro portano a compimento ai danni di civili inermi. La minaccia terroristica e questo genere di episodi, vuoi per fenomeni direttamente correlati al jihad che per semplici motivi di emulazione, non saranno destinati ad esaurirsi nel breve periodo. Per questo credo che sia necessario, anzi indispensabile, ragionare sulla possibilità di modificare alcuni passaggi essenziali dal punto di vista delle garanzie da riconoscere a chi interviene in circostanze simili, per fare in modo di non disincentivare la volontà dei singoli cittadini e soprattutto per non porre le forze dell’ordine in condizione di non poter fare ciò che va fatto. Nessuno, che sia un privato cittadino o un poliziotto, che abbia agito secondo logica e in maniera adeguata e proporzionale – secondo i principi che ispirano anche la norma sulla Legittima Difesa – deve doversi preoccupare delle conseguenze penali del proprio gesto e della propria azione. Rischieremmo altrimenti di fare in modo che ragionamenti di carattere speculativo ostacolino la successione delle azioni necessarie a contrastare ed eliminare la minaccia rendendo vana la tempestività della risposta, il coraggio dei singoli e la preparazione delle nostre forze di polizia”.
Quanto esposto dall’esperto è, purtroppo, una amara verità che risulta, peraltro, ben nota sia agli operatori delle forze dell’ordine, sia ai singoli cittadini che si siano trovati nella circostanza di dover difendere sé o altri da una minaccia concreta alla propria incolumità. Emblematico in questo senso il caso del benzinaio Graziano Stacchio, intervenuto con il fucile per contrastare una rapina in una gioielleria che stava ponendo a rischio della vita le persone all’interno: nel suo caso la vicenda si è conclusa, per fortuna, felicemente con una archiviazione, ma sono stati comunque necessari anni e, soprattutto, migliaia di euro tra avvocati e consulenti tecnici. Per le forze dell’ordine la situazione non è migliore: il poliziotto che a Genova si è trovato a sparare a un giovane sudamericano alterato che stava ripetutamente accoltellando il collega ha determinato addirittura un rinvio a giudizio (con successiva, per fortuna, assoluzione) malgrado la dinamica fosse lapalissiana. D’altro canto sono le stesse tradizioni giuridiche del sistema romanistico a non consentire una particolare elasticità e, soprattutto, rapidità di accertamento dei fatti e una soluzione “semplice” non sembra a essere particolarmente alla portata: la recente normativa sulla legittima difesa approvata la primavera scorsa, apporta indubbiamente alcuni preziosi correttivi (come la possibilità di accedere al gratuito patrocinio) ma, come peraltro confermato dalle successive sentenze giurisprudenzali, è ancora ben lungi dal poter fare la differenza per il malcapitato cittadino che scelga di intervenire nell’interesse della collettività. È un tema sul quale sarà opportuno riflettere nei mesi e negli anni a venire, sarebbe auspicabile se la riflessione potesse avvenire senza pregiudizi ideologici e frasi fatte alla “far west” e compagnia bella, utili solo a screditare ancora un po’ di più una classe politica che appare sempre più lontana dai problemi concreti del quotidiano della gente comune.
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