Sempre più spesso, le prefetture negano il rilascio o il rinnovo del porto d’armi con una motivazione piuttosto agghiacciante, sulla quale è opportuno fare una riflessione: quale?
È un dato di fatto che il porto di pistola per difesa personale sia ormai una specie in via di estinzione. I numeri parlano chiaro: secondo i dati diffusi dal ministero dell’Interno, nel 2002 le licenze attive erano 45.618, mentre nel 2017 sono diventate 18.031, cioè due volte e mezza in meno. Questi dati non includono le guardie particolari giurate, ma il dato relativo alle licenze concesse agli appartenenti a questa categoria professionale è pressoché costante nel tempo, cioè dalle 53.951 del 2002 alle 56.062 del 2017. Considerando che, negli ultimi anni, i compiti delle guardie giurate sono stati estesi, tanto da rivestire in alcuni casi quasi i compiti di una sorta di polizia ausiliaria (pensiamo alla sorveglianza di siti sensibili, come gli aeroporti, per esempio), si può dire che l’aumento delle licenze sia stato veramente minimo. Tornando ai “semplici” cittadini è un fatto che, se una parte delle licenze non rinnovate in questi anni sia stato determinato per esempio dal fatto che il soggetto ha cessato di svolgere l’attività a rischio (perché, per esempio, ha ceduto l’azienda, l’ha chiusa o è andato in pensione), è altrettanto innegabile che una percentuale di licenze non rilasciate o non rinnovate in questi ultimi anni sia stata motivata dal fatto che il soggetto richiedente non sia stato ritenuto meritevole del riconoscimento del “dimostrato bisogno” perché, come osservato da un numero sempre crescente di prefetture, “non consta aver ricevuto minacce, aggressioni o atti intimidatori” o, in altri casi, “non è mai stato oggetto di minacce o azioni lesive della propria incolumità, comunque riconducibili all’attività svolta”. È il caso, per esempio, della vicenda che ha visto coinvolto un cittadino veneto, della quale ci occupiamo sul numero di novembre di Armi e Tiro. Le parole di volta in volta utilizzate possono essere diverse, il senso però è il medesimo e la comunanza di argomentazioni tra prefetture anche molto distanti geograficamente fa ritenere che vi sia, come dire, un punto d’origine comune del suggerimento.
In altre parole, e per essere più chiari: dalla lettura di queste motivazioni, rilasciate in questi ultimi anni in modo “fotocopiato” dalla maggior parte delle prefetture italiane, pare doversi concludere che il cittadino comune, per vedersi rilasciare un porto di pistola per difesa personale, debba secondo l’autorità di Ps (o secondo il ministero direttamente…) rivestire il ruolo di “sopravvissuto”. Cioè, per consentirti di difenderti non basta più il “rischio” di trovarsi coinvolto in una situazione potenzialmente mortale o comunque estremamente pericolosa, bensì bisogna (se interpretiamo correttamente le parole) poter vantare nel proprio curriculum almeno di aver superato concretamente uno di questi eventi. Estendendo ulteriormente il concetto (e arrivando all’assurdo, giacché al ridicolo già ci siamo, se non fosse una situazione tragica), non sarebbe a questo punto impossibile arrivare a ipotizzare che le prefetture decidano di non rinnovare il porto d’armi per difesa a chi, nell’anno precedente, non abbia effettivamente sparato a qualcuno sotto i presupposti (successivamente riconosciuti in giudizio, ça va sans dire…) della legittima difesa!
Bene, questa è una decisione che (entro certi limiti, per fortuna, e le sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato stanno lì a dimostrarlo), rientra nelle valutazioni discrezionali che la legge assegna in capo all’autorità di Ps. La quale, esercitando la propria discrezionalità su questi presupposti “estremi”, in pratica (a nostro avviso, è chiaro) va oltre quello che può essere un prudente apprezzamento sulle circostanze di fatto, arrivando a una vera e propria “scommessa” sulla pelle del cittadino. A questo punto la domanda da porsi è: considerando che non tutti hanno la disponibilità economica da investire in un ricorso al Tar (anche perché spesso, anche in caso di successo, il tribunale dispone la compensazione delle spese di giudizio), considerando che il suddetto ricorso nella migliore delle ipotesi può anche richiedere alcuni anni prima di essere definito (tra i due e i cinque, a seconda delle regioni), nella malaugurata ipotesi in cui nel frattempo al cittadino che si è visto rifiutare il rilascio o il rinnovo del porto d’armi dovesse accadere qualcosa, chi paga? È previsto, qualcuno ha previsto, che le prefetture in tale frangente si facciano parte diligente risarcendo il danno al malcapitato (o, Dio non voglia, agli eredi)? O ci si farà scudo, nel più puro stile italico, sul rispetto pedissequo delle “procedure”? Si disse che la povera Deborah Ballesio, uccisa quest’estate dall’ex marito, si fosse vista rifiutare il rilascio del porto d’armi nonostante i numerosi atti di stalking subiti proprio dall’ex consorte. Purtroppo l’interrogazione parlamentare depositata dal senatore Massimo Candura per appurare questo aspetto, ancora attende una risposta da parte del ministero dell’Interno. Se, però, i fatti fossero confermati, qualcuno pagherà?