La pistola Beretta 34 è, insieme ai fucili e moschetti ’91, una delle armi più fortemente radicate nell’immaginario collettivo degli appassionati d’armi italiani, grazie anche alla lunghissima vita operativa: introdotta in commercio dall’azienda di Gardone Val Trompia (Bs) nel 1934, è stata adottata nel 1936 per l’armamento del regio esercito italiano e, nel dopoguerra, ha continuato a restare in produzione e soprattutto in servizio fino al crepuscolo del XX secolo. Ovviamente, come accadeva (e ancor oggi accade) normalmente a quel tempo, oltre agli esemplari “operativi”, tipicamente bruniti, della 34 in 9 corto e della “sorella” 35 in 7,65 mm sono stati, nel corso degli anni, realizzati esemplari lusso, con pregevoli incisioni e finitura “argentata” (più verosimilmente cromata) o dorata. La protagonista del nostro articolo è proprio una di queste edizioni di lusso, realizzata però in un periodo estremamente travagliato sia per l’azienda, sia per l’Italia tutta, la cui stessa genesi è avvolta dal mistero. Ad aggiungere ulteriore valore storico a questo cimelio, c’è anche il fatto che si tramanda essere stata trovata (e “requisita”) da un partigiano nei convulsi giorni successivi al 25 aprile 1945 nell’ufficio di Rodolfo Graziani, ministro delle forze armate della Repubblica sociale italiana, per poi giungere, con gli anni e le peripezie, all’attuale proprietario.
Breve storia delle Beretta lusso
Partiamo dal principio: la Beretta, in particolar modo tra la fine degli anni Venti e la fine degli anni Trenta, era solita realizzare su richiesta esemplari lusso delle proprie pistole semiautomatiche, con incisioni e finitura brunita, argentata o dorata. Tali esemplari sono stati realizzati sia per modelli prettamente civili delle pistole semiautomatiche Beretta, come le varie 6,35 mm su brevetto 1919, sia per modelli sviluppati per l’impiego militare, come le varie 23, 31 e, appunto, 34-35. In alcuni casi, erano fatte realizzare dalla Casa reale sabauda o dai “cugini” Aosta per prestigiosi omaggi a ospiti di riguardo. In alcuni di questi casi, oltre a personalizzare e rendere uniche le superfici metalliche dell’arma, venivano anche realizzate speciali guancette (in madreperla, tartaruga o altri materiali pregiati), magari ornate con monogrammi, corone o altro. Le armi in questione erano normalmente caratterizzate da un elevato apporto di lavoro manuale, che oltre alle incisioni vere e proprie sulle superfici (normalmente a volute e girali o con figure geometriche) prevedeva talvolta anche la realizzazione delle scritte sul carrello, che non venivano in tal caso rullate come al solito, bensì realizzate a mano, spesso su una sola riga. In alcuni casi, le matricole sono presenti nella consueta posizione sul lato destro di fusto e carrello, in altri casi invece sono stampigliate in posizioni nascoste, quindi sulla parte superiore delle guide del fusto e inferiormente al carrello, in modo da risultare invisibili ad arma montata e non disturbare il lavoro dell’incisore. Di norma, invece, sul lato sinistro del fusto, dietro alle guancette era lasciato uno spazio “bianco”, senza incisioni, per i contrassegni obbligatori apposti dal Banco nazionale di prova. Le armi “lusso”, infatti, appartengono di norma (anzi, praticamente sempre) al circuito commerciale e non a quello militare, da qui l’obbligo (lusso o non lusso) di transitare dal Banco per la prova forzata di sicurezza. Quante Beretta lusso sono state realizzate? Chissà. In molti casi dai registri aziendali non si desume la peculiarità delle finiture di questa o di quell’arma ed essendo realizzazioni su richiesta, non c’era una precisa programmazione del lavoro, almeno apparentemente. Si può tuttavia affermare che sia nella produzione postbellica che si concentrano le “lusso”, pensando in particolar modo allo sbocco massiccio dell’export sul suolo statunitense, poco o per nulla esplorato nel periodo prebellico. Per quanto riguarda la produzione di armi “lusso” nel periodo ante-1945, sono noti e si ritrovano sul mercato collezionistico, di tanto in tanto, esemplari di produzione antecedente all’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940), mentre in effetti non siamo riusciti a trovare neanche un esemplare allestito nel periodo 1940-43, nonostante una produzione per il mercato civile delle Beretta 34 e 35 vi sia stata (anzi, almeno fino a parte del 1941 è stata commercializzata una vera e propria sottovariante civile della 34, denominata modello 1937). È possibile che l’accelerazione nella produzione conseguente allo stato di belligeranza abbia interrotto tutte le lavorazioni speciali di lusso predisposte dall’azienda nel periodo prebellico, anzi si può dire che la cosa ha perfettamente senso. Tuttavia, per motivi inspiegabili, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, con l’Italia invasa e ridotta a un campo di battaglia, il Centro-Nord posto sotto il tallone del controllo militare tedesco, la costituzione della Repubblica sociale italiana, l’azienda mise in produzione un piccolo lotto di pistole modello 34 in edizione lusso, una delle quali appunto è quella che abbiamo avuto la possibilità di fotografare.
Perché?
Tra la fine del 1943 e l’aprile del 1945, per la porzione d’Italia che ricadde sotto l’evanescente autorità della Repubblica sociale, i tempi furono durissimi: bombardamenti da parte degli alleati, razionamenti dei viveri, mancanza di materie prime per le aziende, scarsità di tutto. I tedeschi assunsero in brevissimo tempo il controllo delle aziende impegnate nella produzione di guerra, riprogrammando in molti casi le metodologie produttive al fine di accelerare la produzione al massimo e concentrarsi sulle armi di maggior efficacia bellica, a discapito di quelle di tipologia più obsoleta. Per esempio, relativamente alla Beretta fu disposta l’interruzione immediata nella produzione di fucili e moschetti 1891, privilegiando la produzione di moschetti automatici (Mab), ben più appetibili operativamente. In effetti, grazie all’impiego esensivo della produzione in subappalto per le componenti minori, fu possibile raggiungere e mantenere fino al 25 aprile 1945 ritmi molto elevati di costruzione, pari a 1.000 esemplari al giorno. Stesso discorso anche per la pistola Beretta 35 che, in virtù del calibro utilizzato (7,65 mm Browning), era prontamente utilizzabile da parte delle forze armate tedesche, visto che il 7,65 mm era, dopo il 9×19 mm, il calibro più utilizzato operativamente dai nazisti. Il 9 corto, seppur non “sconosciuto” alla wehrmacht, era sicuramente più difficile a trovarsi in distribuzione ai reparti. Ciò nonostante, durante il periodo della Rsi fu allestito anche un certo numero di Beretta 34, molto inferiore rispetto alle 35, ma comunque non trascurabile. Se, infatti, di Beretta 35 in un anno e mezzo circa ne sono stati realizzati oltre 100 mila esemplari, delle Beretta 34 risultano essere stati realizzati meno di 50 mila esemplari. Quando l’armistizio fu reso noto, l’8 settembre del 1943, la produzione Beretta di modello 34 era arrivata intorno a 30 mila esemplari della serie matricolare “G”, che fu proseguita sotto controllo tedesco fino a poco oltre 50 mila, per poi iniziare un nuovo blocco matricolare con suffisso “AA”, di 10 mila esemplari, al quale seguì un ulteriore blocco matricolare con suffisso “BB”, giunto intorno ai 9 mila esemplari al 25 aprile 1945. In questo contesto, in qualche momento all’inizio del 1944, in corrispondenza della lavorazione del lotto di armi con matricola suffisso “AA”, qualcuno decise in Beretta di mettere in lavorazione 20 esemplari di pistole, in edizione lusso, incise e argentate (cioè cromate). Una vera pazzia, uno spreco di tempo e di risorse assurdo in quella particolare congiuntura, testimoniato però inoppugnabilmente da un rapporto della Guardia nazionale repubblicana datato 30 agosto 1944-XXII dal quale si evince che “il 22 corrente, in Gardone Val Trompia (Brescia), è stato arrestato dalle SS germaniche il rag. Carlo Beretta che è uno dei titolari della fabbrica d’armi. Il Beretta pare sia accusato di aver consegnato numero 10 mitra all’ufficiale comandante della locale sezione Organizzazione Todt, senza il preventivo nulla osta del maresciallo tedesco capo dell’ufficio collaudo dello stabilimento, in quel giorno assente. D’altro canto la consegna sarebbe stata urgenzata dal predetto ufficiale della O.T. che si era preso l’incarico, come in effetti pare abbia fatto nello stesso giorno, di avvisare il maresciallo. Altre accuse di carattere secondario come l’interruzione del lavoro durante gli allarmi, messa in lavorazione di 20 pistole incise e con finiture cromate, ritardo di qualche giorno nella presentazione di un progetto di costruzione di un nuovo tiro a segno eccetera sono state ora mosse al Rag. Beretta. Le accuse sopra cennate sarebbero state sintetizzate in sabotaggio alla produzione e incuria delle ditte e dei dirigenti. La ditta nel rigettare le accuse opporrebbe dati di fatto quali quello di aver consegnato n. 11.000 mitra ai germanici nel giugno 1944 mentre la medesima consegna effettuata all’ex esercito italiano fu di 8.000 pezzi mensili e di essere l’unica industria bresciana che dall’agosto 1943 ha mantenuto al lavoro lo stesso numero di maestranze senza effettuare licenziamenti”. Sfortunatamente, tra le controdeduzioni attribuite a Carlo Beretta (che fu, comunque, rilasciato pochi giorni dopo) non ce n’è alcuna che riguardi nello specifico la lavorazione di queste pistole, ma ciò consente quantomeno di definirne con precisione il numero. Né purtroppo dalla corrispondenza aziendale ancora in archivio si è trovata traccia di chi, quando e perché le abbia commissionate. Da qui, quindi, cominciano anche le domande: come è possibile, per esempio, che in una economia di guerra comandata in modo draconiano dai tedeschi un’azienda come la Beretta si sia potuta permettere di propria iniziativa il lusso di mettere in produzione 20 pistole tutte belle “leccate”? Evidentemente qualcuno glielo aveva ordinato, anche perché fin dall’origine queste armi nascevano su ordinazione per definizione. Ma chi? Certamente non i tedeschi, visto che a quanto pare la cosa li aveva fatti innervosire non poco. E quindi? Si potrebbe forse arrivare a ipotizzare che fossero stati i nuovi gerarchi della Rsi a commissionare alla Beretta uno status symbol da regalarsi, per sancire la loro carica che sapevano essere del tutto effimera da un punto di vista pratico? E che i tedeschi abbiano voluto, sul punto, dimostrare e confermare ai papaveri di Salò chi era che comandava per davvero? Chi lo sa. È un fatto, comunque, che si tratta di uno dei pochissimi esempi di incrocio tra una produzione di guerra in uno dei momenti più critici della seconda guerra mondiale e una produzione di lusso, un caso pressoché unico nel panorama dei Paesi alleati od occupati dai nazifascisti (salvi rarissimi esemplari di Walther Pp, realizzati nel medesimo periodo per alti gerarchi nazisti).
Quante, dove, quando
Data la peculiare congiuntura politico-militare, non è strano che tali armi siano risultate disperse dopo il conflitto e che oggi siano molto, molto difficili a trovarsi. Oltre all’esemplare raffigurato nelle foto di questo articolo, siamo a conoscenza di un esemplare in una collezione privata italiana e, di recente, ne è saltato fuori un altro esemplare in una collezione statunitense, preda di guerra. L’esame di questo esemplare ha potuto determinare che le matricole non erano consecutive tra i 20 esemplari, anzi sono piuttosto disperse, visto che l’esemplare americano ha matricola 8105AA, mentre quello che abbiamo potuto fotografare in prima persona è 3904BB. D’altro canto, c’è anche notizia della 8104AA, quindi adiacente e immediatamente precedente l’esemplare americano (e sempre in versione lusso). Dai registri Beretta risulta comunque che la consegna di questi esemplari (almeno, di questi due) sia avvenuta all’autorità tedesca (dienstelle – comando tedesco recita l’annotazione sul registro per la BB), i quali è facile che ne abbiano disposto a propria discrezione. Come? Anche in questo caso la risposta è… chissà. Un fatto incontrovertibile è che vi sono fotografie d’epoca nelle quali il federale di Milano, Vincenzo Costa, nell’estate del 1944 sfoggia insieme alla sua tenuta da comandante della brigata nera mobile Aldo Resega una fondina “a gabbietta” dalla quale spunta nettamente una 34 argentata. Forse è una delle famose 20? O un esemplare che si era fatto fare per conto proprio prima dell’armistizio? Ancora: chissà. Un altro esemplare sembra fosse nella disponibilità del comandante della X mas, Junio Valerio Borghese, il quale ne fece dono prima della fine delle ostilità. Per quanto riguarda l’esemplare oggetto del nostro articolo, ammesso e non concesso che si tratti effettivamente dell’esemplare “requisito” nell’ufficio di Graziani, è lo stesso maresciallo d’Italia a fornire un riscontro nel suo libro autobiografico Ho difeso la patria: nei giorni immediatamente precedenti la resa, scrive Graziani che “ero stato invitato da Rahn (Rudolf, ambasciatore tedesco presso la Rsi, ndr) ad una cena, in una villa del Garda che non avevo mai vista. Invitato da solo. L’ambasciatore m’aveva fatto sapere dal tenente colonnello Heggenreiner, ufficiale addetto, che potevo anche dormire presso di lui se non volevo tornare a notte alta a casa mia. Presi nota della stranezza e rifiutai. La cena si svolse a tre: l’ambasciatore, un suo giovanissimo segretario, ed io. Ci servì un cameriere che mi parve italiano; prima d’allora non l’avevo mai notato all’Ambasciata. Passammo poi in un salottino. Si parò dell’estrema gravità della situazione; ma neanche una parola sulle trattative della resa in corso! Che abbia voluto prendersi, fin da quel momento, proprio con me, una sadica rivincita dello scacco matto che il Re e Badoglio gli avevano dato a Roma l’8 settembre 1943? Mi lasciò solo un momento, tornò con un astuccio contenente una pistola tipo Beretta, nuova, cromata; e il dono venne accompagnato da queste parole: «ed ora, una volta tanto ho da darvi una buona notizia: il porto di Genova non sarà fatto saltare»”. L’esemplare con matricola 8105AA risulta scaricato ai tedeschi (“Befekes”) il 1° aprile 1944 (ben prima delle contestazioni mosse a Carlo Beretta…), l’esemplare invece del nostro servizio risulta scaricato il 18 novembre dello stesso anno (ben dopo l’arresto…). Evidentemente il fatto che ai tedeschi non fosse piaciuto l’allestimento di queste 20 pistole di lusso, non impedì il completamento del lotto.
Come è fatta
L’esemplare donato a Graziani è l’unico dei 20 trovato, finora, che si sia conservato nelle condizioni originali, cioè con cofanetto e caricatore di ricambio. Il cofanetto è alla francese, quindi con scomparti precisi per arma e caricatore, ha interno in velluto rosso, l’esterno è rifasciato con finta pelle di colore marrone scuro, senza alcun tipo di scritta. L’arma è finita superlativamente, prima della cromatura le superfici sono state impeccabilmente tirate a specchio per procedere poi all’incisione. A proposito di quest’ultima, è da notare che lo stile dei ricami si rinviene anche su esemplari lusso di produzione precedente e di produzione postbellica (“firma” stilistica di un medesimo incisore, forse), ma questi 20 esemplari “repubblichini” sono gli unici finora riscontrati nei quali le scritte sul carrello non siano disposte in linea retta, bensì seguendo un sinuoso cartiglio. È presente il tipico quadratino sul lato sinistro posteriore del fusto per i contrassegni del banco di prova che, però, mancano. Il che è assolutamente corretto, in quanto il Banco di prova di Gardone nel 1944 non risulta dalla documentazione ufficiale esistente che abbia provato a fuoco neanche una pistola (in compenso un minimo di attività risulta esservi stata, in quanto risultano provati 1.498 tra monocanna e doppiette). Il momento produttivo è confermato, oltre che dalla matricola, anche dal fatto che entrambi i caricatori sono dotati del fondello in lamiera stampata messo in produzione a partire dal 1942, su progetto della Cardini di Omegna. Il fusto presenta la matricola nella parte superiore delle guide, il carrello nella parte inferiore delle guide. La canna non riporta la matricola regolamentare, è contrassegnata solo con un “5” nella parte inferiore al quale fa riscontro un altro “5” sotto il fusto, accanto al ritegno del caricatore. Probabilmente è l’identificativo della linea produttiva. L’arma è interamente cromata, con eccezione però del cane, dell’asta guidamolla, dei perni e delle viti, che sono bruniti, realizzando un gradevole contrasto cromatico. Da notare che, normalmente, sulle 34 militari cane e guidamolla sono lasciati in bianco, quindi anche tale lavorazione è stata appositamente eseguita. Bruniti anche i telai delle guancette in Filbak, le quali portano internamente il logo della Littoria (Lavorazioni industriali tecniche termoplastiche organizzate razionalmente per incremento autarchia, acronimo che dopo il 25 aprile, facilmente, sarà stato necessario modificare, ammesso che l’azienda sia sopravvissuta) di Marcheno (Bs). Le condizioni di conservazione sono impeccabili e si può affermare con ragionevole sicurezza che la canna non abbia sparato neanche un colpo.
Quindi?
Alla fine dei tanti “chissà”, qualcosa di certo comunque c’è: il periodo, travagliato, di produzione di quest’arma, il quantitativo totale di esemplari messi in produzione. E tanto, almeno per il momento, basta. Il fatto che nel dopoguerra le armi in 9 corto siano state considerate “da guerra” ci fa temere che alcuni degli esemplari sopravvissuti al conflitto e non “espatriati” come preda di guerra possano essere finiti sequestrati e distrutti, il che sarebbe l’ennesimo delitto nei confronti della storia, compiuto da soggetti ottusi. Auspichiamo che, invece, più ottimisticamente la pubblicazione di questo articolo possa far sì che eventuali fortunati collezionisti che posseggano altri esemplari di questo lotto possano farsi vivi e contribuire a creare una mini-anagrafe di queste rarità, per approfondirne lo studio.
L’articolo completo, con molte più foto, è stato pubblicato su Armi e Tiro di novembre 2019