Caccia solo per i ricchi?
La proiezione geometrica non si addice (purtroppo?) alla caccia. Non sono in vista aumenti dei cacciatori, ma solo spostamenti da un segmento all’altro nel corso di un’inesorabile e costante riduzione numerica. Da un lato vi è un rimpiazzo con nuove generazioni tanto esiguo da non assicurare il ricambio, ma solo la sopravvivenza: nel numero dei cacciatori con figli che frequento, ne trovo forse uno su dieci che pratica la caccia. Dall’altro lato non ci inganni l’a…
La proiezione geometrica non si addice (purtroppo?) alla caccia. Non sono in
vista aumenti dei cacciatori, ma solo spostamenti da un segmento all’altro nel
corso di un’inesorabile e costante riduzione numerica. Da un lato vi è un
rimpiazzo con nuove generazioni tanto esiguo da non assicurare il ricambio, ma
solo la sopravvivenza: nel numero dei cacciatori con figli che frequento, ne
trovo forse uno su dieci che pratica la caccia. Dall’altro lato non ci inganni
l’affollamento dei corsi per selecontrollori dell’area Appennino: è un fenomeno
che interessa i già praticanti e in misura minima nuovi cacciatori. Non è un’
opinione: a riprova di ciò, nelle zone alpine, dove gli ungulati non sono
novità e l’accesso è limitato ai residenti, i corsi non hanno affluenze da
record. I cacciatori in età (dai 45 ai 60 anni) prendono in considerazione la
caccia agli ungulati soprattutto come alternativa futura possibile e comoda. Ma
chi realmente praticherà dalla prossima stagione la caccia in selezione? Il
selecontrollore oltre i cinquant’anni, diplomatosi oggi, a far fatica in
montagna non ci va, neppure se ne ha modo: per i più, l’accesso alla caccia di
selezione significa accesso in Afv private con piano di abbattimento oppure,
opportunamente accompagnato e accudito, in alcuni Atc della montagna
tosco-emiliana. Nulla di nuovo in questo, che, qui come per altre forme di
caccia, riguarda chi ha possibilità economiche superiori alla media.
Il nostro è un Paese di forti diversità: è il suo bello e la sua croce. Ci sono
aree di montagna dove non ci si incontra mai e territori di pianura più
affollati di un autobus. La caccia riflette esattamente questa situazione e la
ricchezza faunistica anche: molti capi per pochi residenti qui, pochi polli
colorati per tanti cacciatori là. Puoi chiedere (non pretendere) di avere
accesso dove c’è ancora posto, ma non puoi neppure pensare che un rotolo di
bigliettoni basti a comprare quello che altri hanno costruito in anni di lavoro
e buona gestione. Nella legge 157, per molti versi giustamente discussa, c’è
tuttavia un buon principio: legarsi al territorio, gestirlo e farlo fruttare
venatoriamente. Tolte alcune forme di caccia, per molti questo principio è
ancora ben lontano dalla mente. La spesso vituperata caccia di selezione (o
meglio chi ne ha diffuso i principi) ha il merito di avere dato concretezza e
senso a questa impostazione. Ma anche la parte migliore dei migratoristi, i
titolari di appostamento, i concessionari di laghi e paludi, i gestori di
aziende faunistiche hanno da tempo capito che la difesa e gestione
dell’ecosistema e del territorio è la sola via per mantenere le proprie forme
di caccia.
Il pensiero torna ai costi della caccia. E all’antica demagogia che sta
nell’ambiente venatorio e lo condiziona. L’esercizio venatorio, secondo molti
tribuni popolari, dovrebbe costare poco e dare maggiori soddisfazioni
(carnieri!), ma questo è un controsenso, perché la selvaggina costa cara: si
guardi quanto già costano un banale fagiano di voliera o una starna e, fatte le
debite proporzioni, chiediamoci quanto dovrebbe valere un capriolo (con
mortalità per cattura/trasporto del 50%!) o una lepre autoctona costata anni di
attenzioni.
Spesso il tono pomposo e saccente dei “tecnici” e cosiddetti “cacciatori
esperti” è insopportabile, tuttavia la sostanza delle cose non cambia: la fauna
è un bene prezioso e deve costare. Quello che si vende a poco, nell’immaginario
collettivo vale poco. La caccia è, nella sostanza, un utilizzo privato di beni
pubblici: per essere ammesso dalla società civile occorre che chi la pratica
sia presentabile, credibile e affidabile, perché porta un’arma, e sia
tecnicamente preparato, perché amministra un patrimonio. E che paghi il dovuto,
che da noi è comunque sempre inferiore alle tariffe di Paesi che ancora
consideriamo sottosviluppati.
L’accesso alla caccia impone preparazione e costi d’accesso, barriere che, in
giusto equilibrio, integrano i limiti di prelievo. Chi può, fa bene ad
acquistare i diritti di abbattimento dei capi in esubero in certe zone, ma
attenzione, senza farne una religione o un commercio spudorato. Se agitiamo
troppo la bandiera del libero mercato, i nostri avversari potrebbero con
diritto cominciare a dire che la nostra gestione non solo è discutibile nei
risultati, ma ha solo fini di lucro. A qualcuno addirittura potrebbe venire in
mente che i caprioli di qui si potrebbero portare lì, anziché sparargli secondo
un piano prescritto da esperti. Qualcosa che abbiamo già visto e speriamo di
non vedere più.
Non riteniamo, in conclusione che vi siano cacce di serie A e di serie B.
Difendiamo la caccia come principio, come modo conflittuale, ma positivo e
conservativo di stare nella natura. Difendiamo la caccia di quelli vestiti in
loden e di quelli con le gabbiette, la caccia degli esperti e dei meno esperti,
che forse hanno bisogno anche di chi scrive sui giornali per saperne di più.
Difendiamo ogni forma di caccia, a patto che nessuna si consideri un orto
privato intoccabile, solo perché vanta secoli di tradizione: per sopravvivere
ogni attività dell’uomo deve confrontarsi e adeguarsi alla realtà che cambia.
Difendiamo la caccia praticata con correttezza, con conoscenza e rispetto delle
specie animali. Difendiamo la caccia che rispetta chi è contrario, ma in nome
dello stesso principio chiede di essere rispettata.